Architecture is the mediation between art and life, form and material, function and challenge, individual and society and many other dialectical conditions. Plasma employs form and space to engage the users inviting them to see and discover. The work reflects contextual relationships and captures momentous ephemeral conditions to anchor each recipient in place and time.
PLASMA STUDIO
un testo di Francesca Oddo
Plasma Studio comincia la sua avventura nel 1999, quando Eva Castro e Holger Kehne, dopo essersi conosciuti a Londra all’Architectural Association School of Architecture e aver avvertito affinità di pensiero rispetto alla cultura progettuale contemporanea, decidono di avviare un’attività in comune e di aprire la loro prima sede nella capitale britannica. A distanza di pochissimo tempo si unirà a loro Ulla Hell.
Una scelta, quella di fondare Plasma Studio ormai 20 anni fa, che si è dimostrata acuta, considerata la qualità del percorso progettuale dei soci, e che li ha portati dai primi passi mossi in Europa -audaci, mai timidi- alla Turchia e all’Asia, dove hanno realizzato e continuano a intervenire su progetti di importanti dimensioni per una committenza a scala istituzionale. Tanto da aprire una nuova sede a Pechino guidata da Chuan Wang, nuovo socio locale, oltre ai due research studio di Singapore con Eva Castro e di Hong Kong con Holger Kehne. L’assetto della distribuzione geografica di Plasma Studio si completa e si integra con la base italiana, a Sesto, proprio sui crinali di confine con l’Austria, dove Ulla Hell ha sfidato con garbo e determinazione una visione stereotipata dell’architettura di montagna proponendo scenari, perlopiù di tipo residenziale e ricettivo, inediti per il contesto locale eppure a essi intimamente legati.
Nel team multiculturale di Plasma Studio, con una media di dodici progettisti, Peter Pichler è il collaboratore principale. Altoatesino e architetto, dopo aver studiato a Innsbruck e a Firenze, ha raggiunto Plasma Studio a Londra ormai ben tredici anni fa. Oggi continua a lavorare con lo studio da Vienna.
La caratteristica vincente del gruppo è, fra le altre, quella di lavorare in network, sia pure da luoghi parecchio distanti fra loro: ogni progetto di Plasma Studio è il frutto di un’assidua interazione e di un confronto costante fra diverse culture di provenienza e di formazione (Eva Castro ha studiato in Venezuela e in Inghilterra, Holger Kehne in Germania e in Inghilterra, Ulla Hell in Austria e nei Paesi Bassi, Chuan Wang in Cina). Il risultato che ne deriva è una visione integrata, poliedrica e interdisciplinare.
Fin dai loro primi progetti appare evidente l’esigenza di affrontare l’architettura come uno strumento attraverso il quale “reagire” allo spazio esistente, provocatore di una “reazione” mirata a prospettare nuovi possibili scenari architettonici, alternativi e inaspettati.
Si pensi al progetto “Silversmith” (2001) di Londra, nel quale la richiesta di un argentiere di ampliare il proprio spazio di lavoro senza perdere l’unica fonte di luce naturale (il lucernaio) si traduce in un percorso, fisicamente interpretato da una griglia di acciaio permeabile alla luce, che si sviluppa in altezza, procedendo come un nastro che a tratti si allarga per ospitare ambienti informali sia di lavoro sia domestici. E che, all’occasione, diventa un vero e proprio percorso espositivo per le opere del cliente. Ancora, “Crumple Zone” (2004) a Londra è l’installazione per una mostra che pone in dialogo moda, arte, design e architettura britannica: in questo progetto è ancora più evidente e marcata la volontà di “reagire” allo spazio esistente che assiste alla messa in discussione della triade vitruviana, che apparentemente sovverte ogni principio della statica e delle regole cartesiane. Un tessuto di lamiera di acciaio punzonato, che appare come accartocciato su sé stesso, mette in discussione i sistemi strutturali tradizionali creando un nuovo scenario di forze alternative che interagiscono fra loro proponendo inaspettati supporti per la proiezione di immagini e informazioni, oltre che per l’esposizione degli oggetti in mostra.
Il progetto precede solo di un anno quello per le camere del quarto piano dell’”Hotel Puerta America” (2005) a Madrid, emblematico del loro approccio progettuale: era il contesto perfetto per farsi notare, in quanto una serie di architetti di fama internazionale, fra i quali Zaha Hadid, David Chipperfield, Jean Nouvel, Arata Isozaki, Ron Arad, John Pawson erano stati chiamati a esprimere, ciascuno per il proprio piano, il proprio estro creativo. Occorreva osare e Plasma Studio non si sottrasse: in contrapposizione alla monotonia dei corridoi che distribuiscono le varie camere negli alberghi i progettisti pensano a un percorso straniante e a vortice che, a partire dai punti fissi della pianta, si riveste di un “abito” di acciaio lucido. Un tunnel corre lungo una serie di traiettorie descrivendo una teoria di sezioni che, grazie a una serie di sfumature di colore prodotte da luci LED, alla fine porta gli ospiti a sviluppare intuitivamente una forma di orientamento. Il vortice si placa nelle camere, dove l’ingresso a imbuto inquadra le grandi vetrate che incorniciano la città.
Questa volontà di partire dalle geometrie date per costruirne di nuove -inedite, inaspettate, inattese-, questa urgenza di “reagire” allo spazio dato e di sperimentarne nuove e inimmaginabili potenzialità percorre tutto l’approccio progettuale di Plasma Studio.
Più o meno negli stessi anni in cui vengono realizzati i progetti di Madrid e Londra Ulla Hell torna fra le sue montagne e apre a Sesto, al confine con l’Austria, la base italiana di Plasma Studio. Anche i progetti realizzati ad alta quota puntano sulla stessa strategia. Ne è un esempio “Esker House” (2006), ampliamento di una abitazione anni Sessanta, dove una nuova struttura costituita da una serie di telai in legno e acciaio, a partire dalla geometria esistente e dai punti dati, si aggrappa come una sorta di “parassita” fino a diventare indipendente e a donare un nuovo volto all’abitazione.
Qualche anno dopo lo “Strata Hotel” (2007) che continua a introdurre in montagna un linguaggio alternativo a quello consolidato, in realtà profondamente intriso della memoria del luogo, finalmente declinata secondo una visione aggiornata. Qui, come del resto nel successivo “Residence Paramount Alma” (2011-2018) e in altri progetti, Ulla continua a dimostrate come a partire da un dettaglio assai semplice -in questo caso i listelli di legno dei balconi, agganciati a profili di acciaio lineare tagliati a pettine- sia possibile arrivare a configurare geometrie nuove, solo apparentemente complesse, inaspettate.
Proprio come accade, sia pure in maniera leggermente diversa ma sfruttando lo stesso concetto, all’Hotel Puerta America, il progetto che lancia Plasma Studio a livello internazionale e che lo catapulta in contesti nei quali sarà chiamato a coniugare la scala dell’architettura con quella urbana, paesaggistica e territoriale. È accaduto e sta accadendo in Cina, dove si trovano oggi i loro interventi più complessi. Come il progetto realizzato per Xian fra il 2009 e il 2014 (“Flowing Gardens”, “Creativity Pavilion”, “Greenhouse” “Eco Restaurant”) e per Smirne in Turchia avviato nel 2016 e attualmente in corso (“Masterplan University of Economy”, “K-12 School Complex”, “University of Economy”): in entrambi i lavori l’ambizione è quella di produrre un’architettura capace di germogliare dal terreno, di interagire con la topografia del territorio, di raccontare una storia, quella dell’ambiente costruito che dialoga costruttivamente con quella del paesaggio. La luce, il rapporto con l’esterno -che sia esso paesaggio naturale o artificiale-, l’innovazione tecnologica, soprattutto in termini di sostenibilità ambientale, la volontà di fare eco alle traiettorie, alle pendenze, ai percorsi del contesto naturale diventeranno i capisaldi dei loro progetti, dalla vastità degli scenari di azione in Cina alla dimensione più intima delle architetture di montagna in Alto Adige.
Non è un caso che nella “Schäfer Roofscape” (2014) di San Candido, in provincia di Bolzano come tutti gli altri progetti a seguire, la sfida è stata quella di captare quanta più luce naturale possibile attraverso tagli sul tetto dai profili dinamici, asimmetrici, irregolari, visto che la facciata principale è sottoposta ai vincoli imposti dalla Soprintendenza. Un lavoro di pazienza certosina, di ricerca di soluzioni minute e allo stesso tempo complesse per una soluzione che permette l’interazione fra edificio storico e innovazione dei linguaggi in funzione di nuove esigenze abitative.
E sempre a proposito di luce naturale, tutte le abitazioni unifamiliari e plurifamiliari, oltre alle strutture ricettive, che Ulla Hell realizza fra le sue montagne -”Strata Hotel” (2007), “Tetris House” (2007), “Cube House” (2008), “Dolomitenblick” (2014), “House H” (2016), “Residence Villa Drei Birken” (2016), “Residence Paramount Alma” (2011/prima parte - 2018/ampliamento), fino alla “House L”, appena ultimata prevedono ampie superfici vetrate -a differenza dell’edilizia locale decisamente più introversa- destinate non solo ad assorbire l’intensità della luce naturale ma anche a stabilire un rapporto osmotico con il paesaggio naturale, che non è mai secondario nei suoi progetti, ma piuttosto li ispira, dà loro anima e li completa. Questa vocazione a declinare l’architettura in funzione della luce, del paesaggio, della morfologia del territorio si ripropone a Sesto, a San Candido, a Dobbiaco, paesi che nel loro insieme non arrivano a 10.000 anime, come a Xian, con oltre 8 milioni di abitanti, e a Smirne, popolata da 4 milioni di persone. Perché certi elementi progettuali per Plasma Studio rimangono costanti, come la ricerca della luce e il rapporto con il paesaggio, mentre a cambiare sono gli infiniti modi per captarla e per stabilire un’interazione visiva con l’ambiente esterno. Nel lavoro in montagna c’è poi un elemento in più da considerare, rispetto alla Cina assetata di novità: esso ha a che vedere con lo scenario vernacolare consolidato e con la capacità di dimostrare che linguaggi diversi, capaci di agganciarsi alla memoria e allo stesso tempo di porsi come innovativi, sono possibili, percorribili, auspicabili.
REALTA’ ELASTICHE
Attraverso la forma e l’organizzazione dello spazio come strumenti essenzialmente politici (non in modo simbolico ma socialmente, fisicamente), intendiamo intrecciare il particolare con il sistemico, generando un’architettura che rifletta autenticamente e ospiti modelli di vita sociale contemporanea e fornisca opportunità e qualità generose ed indiscriminate ad una società sempre più contradditoria, onnipresente ed atomizzata.
Configurando lo spazio e le attività in modo elastico ricaviamo forme che sono sintonizzate su requisiti specifici e riusciamo ad esprimere i molteplici aspetti che li hanno formati. La nostra enfasi sullo sviluppo dello spazio fisico e sugli eventi effimeri diventa una “lingua franca” per il nostro mondo globalizzato e differenziato, interrompendo le dipendenze dalla conoscenza e dalle letture (esclusivamente) storiche, linguistiche, culturali o intellettuali. L’architettura può e dovrebbe essere esperita ed interpretata ad hoc come un’esperienza puramente fisica e fenomenologica – di emancipazione, integrativa, (pro)attiva.
RICONFIGURARE I CONFINI
Le normative di pianificazione attuali dissezionano le città in lotti ed aree separato di lavoro, vita e piacere. Proteggendo il settore immobiliare e lo status quo, promuovono l’architettura come modalità di esclusione attraverso la traduzione dei confini in fortezze periferiche: separazioni di interno ed esterno dove la necessità di un filtro climatico diventa un dispositivo per la disconnessione sociale.
Questo uso del collage e del patchwork come modalità predominante di produzione spaziale crea disgiunzioni e disconnessione – l’urbanità dall’estrapolazione di singolarità come isole confinate. Al giorno d’oggi abbiamo le capacità tecnologiche per superare l’impasse della griglia bidimensionale dell’urbanistica tradizionale ed è necessario progettare sovrapposizioni, affiliazioni e continuità molteplici. L’architettura comincia quando singoli oggetti ed istanze si intrecciano tra di loro e con il contesto più ampio.
SPOSTARE I VALORI
Quel che è rimasto di un’architettura cultualmente rilevante è in pericolo di diventare polarizzata dai media e dai modelli di valutazione culturale post-moderna in stili e marchi. Consumati e talvolta prodotti come tali, molti progetti architettonici sono in grado solamente di spostare o estendere convenzioni date nell’una o nell’altra direzione, ma in generale non riescono a metterle in discussione. I risultati sono monumenti iconografici, motivi non intenzionali e veicoli delle forze del mercato e della cultura dei media.
Plasma studio è stanco di un’iconografia accomodante, di scorciatoie tipologiche, di un effetto wow disconnesso, Infatti, cerchiamo l’opposto: attraverso l’astrazione, variazioni morfologiche ed un uso innovativo dei materiali intendiamo produrre atmosfere che siano non familiari (nuove, inusuali, esotiche). Questi non sono conformi a schemi normativi già pronti (clichés) ma aprono l’utente per un viaggio nell’ignoto: ciò che all’inizio appare astratto diventa parte di una storia più ampia attraverso l’esperienza e scoperta attiva dello spazio.
RIVELARE POTENZIALITA’
Fattori economici, pratici così come ergonomici danno le ragioni per l’aspetto e le prestazioni del nostro ambiente costruito. Eppure in molti casi un potenziale intrinseco per una soluzione specifica, significativa, di alta qualità viene spazzato via da un luogo comune. I nostri progetti cercano di espandere gli onnipresenti sistemi di ordinamento razionalistico. I punti di forza insiti nel paradigma funzionale modernista come l’efficienza, l’adeguatezza, la scala umana, la chiarezza e la versatilità, tra gli altri, sono capitalizzati, indicizzati e riutilizzati come strumenti di modellazione nel processo di progettazione. Tuttavia i nostri progetti si sviluppano da quelle strutture date, acquisendo geometrie che sono strettamente formate da molteplici condizioni ambientali, sociali ed intellettuali.
SCRITTO DA HOLGER KEHNE
TOPOGRAFIE ATTRAENTI
Ripiegando lo spazio in sé stesso, Plasma disegna e trasforma paesaggi in edifici, strade in facciate, l’interno nell’esterno. Questa tettonica trasformativa fissa spazi, piani e corpi in relazioni impreviste che sfidano le topografie tradizionali ed i codici spaziali.
Mentre le qualità angolari e complesse delle loro forme potrebbero superficialmente affiliarli con l’architettura computazionale, il processo decisionale non è mail lasciato al computer.
Il ragionamento strategico ed il desiderio di produrre una specificità al posto di generalità guida la forma tettonica. A tale riguardo, hanno terreno comune più con i cosiddetti “Modernisti organici”, come Scharoun, la cui Filarmonica di Berlino è composta di forme derivate dalle soluzioni funzionali più efficienti.
I Plasma non si preoccupano della creazione di uno “stile” visivo, trascendendo la fotogenica architettonica e, formati da un ricco dialogo con la teoria filosofica e sociale, perseguono il sociale nei suoi aspetti quotidiani e sperimentali. Si avventurano a pensare che la costruzione di dialoghi topografici “possa consentire e potenziare nuove e differenti forme di interazione sociale”.
Questi dialoghi topografici sono attivati da un’architettura con una certa traiettoria e momentum, che risponde alla natura delle topografie ed alle possibilità di impiego. Alla piccola scala, la Plasma Bench rappresenta la costruzione di un’entità continua che supporta una gamma di applicazioni per ufficio in modo integrativo.
La forma fortemente articolata piega e ripiega non solo la propria superficie, ma anche le funzioni in essa contenute. Questo piegarsi e dispiegarsi della superficie suggerisce quindi relazioni tra le azioni che sviluppano attraverso il divenire e l’esperienza, piuttosto che la loro separazione all’interno di un insieme di elementi disgiuntivi.
La facciata di 136 Old Street negozia il passaggio della topografia stradale esterna attraverso una struttura di vetro le cui complesse deformazioni planari interrompono la trasparenza assoluta e producono uno schermo fratturato in riflessioni multiple. Le immagini della strada sono ingaggiate e riprodotte all’esterno in forma modulata, mentre la luce e le immagini, ma non lo sguardo, passano attraverso la facciata verso l’interno: la complessa struttura della facciata opera come un filtro di scambio tra la strada e l’interno.
Nel Silversmith studio, ai Plasma è stato presentato lo spazio dato di un modulo standard per ospitare vita e lavoro, ed è stato chiesto loro di provvedere a creare una struttura al suo interno che soddisfacesse le esigenze di un argentiere e insegnante di Tai Chi. L’impegno qui era di trovare una mediazione tra un edificio standardizzato ed un insieme di esigenze ed attività altamente individualizzate. All’interno del guscio ortogonale, Plasma ha prodotto un elemento a forma di spirale ascendente che incorpora le funzioni legate al movimento verticale con una serie di piattaforme che rispondono alle esigenze programmatiche – esibizione, esposizione, luogo di lavoro – del cliente. Mentre fornisce spazi per specifiche funzioni, la struttura unica nel suo genere non le segrega come attività discrete ed isolate, e non ne implica limitazioni d’uso. Piuttosto, si svolge un dialogo tettonico e visivo tra l’utente e la forma che attiva una dinamica di integrazione e dispersione funzionale, una traiettoria non coreografata di lavoro, gioco e possibilità. Plasma ha risposto con una soluzione che interagisce con gli schemi complessi dell’abitare contemporaneo in modo innovativo e sfumato.
Il coinvolgimento topografico raggiunto qui suggerisce processi sociali più ampi in cui lo slittamento e le interazioni interrompono in maniera crescente le divisioni normative di lavoro, tempo libero e domesticità, dello spazio privato e dello spazio pubblico. All’interno delle condizioni spaziali date dell’attuale Mozarteum Performing Arts School, la proposta di Plasma è intervenuta su di una matrice ortogonale per stabilire un maggior grado di integrazione istituzionale, mentre coinvolgeva l’edificio con il suo contesto urbano.
Attraverso un processo di pieghettatura e foratura, i percorsi esistenti sono stati ampliati in un paesaggio pubblico artificiale al piano terra, suggerendo una nuova confluenza tra cittadini ed istituzioni. L’edificio esistente impiegava 5 fasce volumetriche regolari per provvedere ai differenti dipartimenti dell’istituzione. Curvandoli e deformandoli, si è ottenuto un certo livello di sovrapposizione e interazione e si sono aperte nuove sacche di spazio differenziale. Allo stesso modo, i volumi modificati hanno ottenuto loro stessi nuovi profili obliqui e un certo grado di differenziazione, che aiuterà il riconoscimento e l’orientamento all’interno dell’istituzione. Questa mossa sottile stabilirà un’interdipendenza istituzionale senza abbandonare la coerenza spaziale e dei dipartimenti.
Per il Museo Oceanografico di Stralsund, Plasma ha proposto un assemblaggio che ha coinvolto l’”archetipo dello spazio fluido” dell’oceano e lo “spazio striato per eccellenza” della città, attraverso una traiettoria ad anello. Come nel Silversmith studio, si sono affrontate le richieste programmatiche del progetto senza ricorrere ad un montaggio topologico di funzioni e zone. Invece di produrre una serie di spazi funzionalmente prescrittivi e discreti, un processo di impulso opera lungo la traiettoria secondo una logica del “divenire” al posto dell’”essere”.
La traiettoria, che disegna e avvolge lo spazio del visitatore al di sotto, al sopra e attraverso lo spazio oceanografico fluido, guida il suo passaggio attraverso un complesso assemblaggio ed allo stesso tempo accoglie una serie di funzioni: osservazione, sensazione, informazione. La superficie pieghettata continua del museo funge da mediatore tra le topografie contrastanti del mare e della citta attraverso le sue dinamiche spaziali non cartesiane.
Questo metodo spaziale sconvolge la codifica convenzionale del visitatore del museo come un consumatore stabile di conoscenza, informazione ed esperienza puramente visiva. Immergendo e coinvolgendo il visitatore all’interno delle qualità dello spazio fluido, l’esperienza diventa viscerale e tattile, oltre che cognitiva.
Questi progetti dimostrano l’impegno di Plasma ad andare oltre i paradigmi modernisti ancora dominanti della zonizzazione funzionale e sfidare la codifica cartesiana dello spazio e del corpo ad uno stretto strumentalismo. Al posto di questo, Plasma assembla i flussi relazionali e rifiuta di differenziare il percorso dalla destinazione.
SCRITTO DA DOUGLAS SPENCER
FORMSACHE: NOTE PER LA DISSIMULAZIONE DELLE FORMALITA’ DELLA FORMA
Traddizionalmente, l’obiettivo del testo introduttivo ad una mostra è di spiegare l’opera che si trova di fronte allo spettatore e nel caso in cui quell’opera derivi da più di una fonte, di disegnare le connessioni che attraversano ogni progetto, per portare alla luce nelle loro diverse forme un significato comune e tracciarlo come tema che rappresenta un spirito del tempo, una visione del mondo, una nuova scuola di pensiero o “paradigma”.
In effetti, di fronte ad architetture non convenzionali, i testi curatoriali devono cercare di reintegrarle in quel genere chiamato “architettura”, per mostrare come anche questi progetti nella loro apparente estraneità aderiscano a questo proprio nome. Cioè, tali testi hanno lo scopo di sintetizzare un’identità organica per questioni altrimenti diverse, forse eterogenee. E’ meglio trattare tali spiegazioni con scetticismo. Per quanto sanguigno possa essere credere che un’opera possa essere spiegata individuando somiglianze e quindi sublimando la nostra ansia riguardo a qualsiasi apparente estraneità a riferimenti noti, la dinamica di questa identificazione è problematica in quanto include tutte le possibili differenziazioni e trasformazioni sotto il modello di una implicita o esplicita monotonia e continuità. Piuttosto che illuminare l’opera, è questo modello assente dell’”uguale” che viene subito imposto ed occluso in tali “spiegazioni”.
Quindi, piuttosto che offrire questi quattro studi e i loro progetti come esempi di un nuovo paradigma, scuola o movimento, è più utile indicare alcuni dei problemi che affrontano, e il campo contemporaneo di possibilità da cui emergono. Piuttosto che cercare le somiglianze, si viene maggiormente coinvolti da questi progetti attraverso le loro irriducibilmente complesse condizioni di formazione, pensate a loro volta utilmente attraverso regimi di identificazione alternativi dati dai tre sensi del titolo dell’esposizione, formsache: formalità, oggetto forma, e essere in una forma.
FORME E OGGETTI
Questa mostra si basa su di una supposizione, che oggi quasi nulla sia meno rilevante per l’architettura del “visibile”. Potrebbe sembrare un’affermazione perversa quando letta proiettata su di uno schermo, circondata da altre proiezioni di progetti. Ecco una mostra, si potrebbe pensare, progettata per fornire una superficie di proiezione visivamente interessante, che rappresenta essa stessa progetti formati in maniera complessa, resi abilmente e generati attraverso l’interfaccia dello schermo del computer.
I reazionari potrebbero vedere l’intera installazione e il lavoro che presenta come un altro segno del consumo dell’architettura nell’economia globale delle immagini. Eppure, l’immagine ha poco a che fare con la visione. Suggerire che non solo confonde l’ottica, la percezione, la rappresentazione e ciò che Duchamp ha deriso come il “retinico”, ma dimentica le condizioni secondo cui qualcosa è percepito come un’immagine. In ognuno di questi progetti, l’immagine dovrebbe essere intesa nel senso di un’immagine completamente integrata nelle condizioni dell’essere per l’opera, ma non delimitata dal putativo oggetto architettonico “reale”.
Invece di una “immagine di qualcosa” è più utile pensare all’immagine delle cose come in formazione: cioè prima che qualcosa possa essere reso evidente come una rappresentazione coerente dell’occhio (la banale idea di un’immagine) ci deve essere un’organizzazione schematica attraverso la quale una qualità, forma o tratto possa essere riconosciuto come tale. Questo si trova tra la materia e la sua potenziale forma latente, integrata nelle condizioni di formazione stessa. Il ruolo dell’immagine non è quindi né quello di rappresentare un teorico oggetto “reale” né, allo stesso modo, di minacciare la “realtà” dell’architettura. Né la visualizzazione al computer rende l’immagine meno affidabile a causa del livello di manipolazione e fotorealismo permesso dal software. Oggi, come incarnato dai dispositivi di rappresentazione e dalle strategie formative di Plasma, l’immagine in architettura non è così diversa dai campi di gradiente elettro-chimico che gli studi sull’intelligenza dello sciame chiamano erroneamente modelli – un involucro efflorescente attraverso il quale il molteplice di ciò che costituisce architettura viene re-immaginato. E’ a questa immagine diagrammatica dell’architettura che si rivolgono queste ricerche formali.
SENSORI AUMENTATI
Allo stesso modo, tutti sanno che la luce visibile costituisce una sezione molto minuta dello spettro delle onde elettromagnetiche. Il resto – cioè quasi tutto – rimane “invisibile” alla vista umana (umanista). Abbiamo bisogno di protesi perché il resto diventi disponibile per la nostra realtà e la formazione di queste protesi offre uno schema attraverso il quale queste realtà diventano disponibili alla conoscenza. Similmente, per questi progetti, l’ambiente costruito è disponibile all’occhio solo in piccola parte e viene compreso come un campo di forze e pacchetti di onde molto più ampio.
Il contesto non si riferisce più a quelle forme a cui si accede attraverso disegni e prospetti dei campi figurati, ma attraverso i campi del capitale, del consumo, del marchio e dei segnali elettronici che effondono l’ambiente metropolitano. I computer non consentono analisi più “scientifiche” o positiviste, quanto aprono lo spettro informatico alla conoscenza architettonica, trattando l’ambiente costruito in termini non-umanisti, come nel modo in cui i pipistrelli si muovono per individuare e catturare la preda attraverso il sonar. Allo stesso modo, il formalismo non è più un’astrazione scolastica ma un intimo coinvolgimento con il flusso della materia – compresi i livelli quantici della trasmissione EM. Questi progetti sono differenti attualizzazioni di una condizione contemporanea in cui l’empirismo è sublime.
IN FORMA: GEOMETRIE PRAGMATICHE
Come sviluppato da C.S. Pierce e William James, il pragmatismo suggerisce che le uniche cose che sono conoscibili sono quelle cose che hanno effetti efficaci. Tutto il resto è irrilevante, privo di significato, e per James non è nemmeno reale. Al contrario, il progetto “critico”, così come era interpretato in architettura, interpretava la realtà come qualcosa che si celava dietro ai veli dell’ideologia e di altre rappresentazioni.
Per il pragmatico, tuttavia, l’ideologia è “reale” solo quando efficace e quindi non ideologica.
Questo è il motivo per cui nessuno di questi progetti rappresenta un valore in senso tradizionale o ermeneutico né in qualche vana ricerca del silenzio e della pura funzione minimalista; piuttosto, impostano un’etica degli affetti formali, spaziali e materiali. A tal fine, un’ideologia della frammentazione, “blob” o topologia di superficie non è in gioco in nessuno di questi progetti, né vi è un’opposizione alla cosiddetta geometria cartesiana. Questo potrebbe far sembrare la loro “posizione” meno chiara rispetto alla generazione precedente; segna una certa soglia di maturità.
Plasma studio ha una gamma vincolata di articolazioni geometriche per configurare piattaforme di eventi, altri, come Information Based Architecture, hanno un intervallo più ecumenico distribuito come inviluppi di performatività. Blue Architects impiega niente di meno alla moda delle geometrie circolari per creare uno spazio isotonico che smentisce qualsiasi centricità.
Ocean North sviluppa strategie affiliate in cui le geometrie di progetto sono formate dalla mappatura – come Deleuze chiamala Wasp-Orchid – il suo ambiente di forze, che si tratti di una città o di un “corpo”. Piuttosto che identificare una geometria tramite un carattere essenziale definito attraverso l’identità dialettica (cartesiana/topologica, umanistica/non umanistica, semplice/complessa), ogni progetto impiega la geometria (spesso piuttosto “semplice” o basata su di un semplice input parametrico) per costruire coreografie di effetti spaziali.
MATERIALE COME FORMA
Allo stesso modo, questi progetti occupano una zona ben oltre i dibattiti sulla verità o sulla presenza di materiali e strutture. Sono prodotti in un momento in cui le scienze dei materiali stanno sviluppano tecniche non solo per produrre materiali completamente sintetici e strutture nanotecnologiche, ma stanno anche cominciando a fondere senza soluzione di continuità l’acciaio con la gomma a livello molecolare – creando materialià neanche ibride ma completamente nuove. Non c’è alcuna verità nel materiale in quanto le nuove ontologie della materia sono essenzialmente informative, definite dalla trasformazione e dai tassi di errore. L’uso del materiale di Blue Architecture è forse il miglior esempio di questo approccio alla materia. Qui il “mattone” come materiale viene spogliato della sua piena materialità e pseudo-ontologia ed è trattato come una mappa di trama in rilievo applicabile a qualsiasi superficie o forma. Le domande non sono più “cosa un mattone vuole essere”, né trucchi illusionistici, ma quali effetti possono essere attualizzati attraverso la manipolazione e la ricombinazione del materiale.
CONCLUSIONI
Così, in ognuna delle opere, si trova una rielaborazione del ruolo dell’architetto come avatar del genio artistico. In effetti, definiscono spesso il loro ruolo come quello di progettisti di prodotti esplicitamente multi-disciplinari in cui l’architettura è solo una delle linee di produzione. Se è così, allora ognuno di questi progetti potrebbe essere affrontato come traiettorie discrete di ricerca sulle condizioni della produzione architettonica, esplorazioni sui limiti di ciò che può essere conosciuto attraverso le proiezioni di quella formazione di pratica e idee chiamate “architettura”.
Il classico articolo di Walter Benjamin potrebbe essere riformulato oggi come un problema del “lavoro dell’architetto nell’era della proliferazione elettronica” in quanto non è la tecnologia che guida questa trasformazione ma una riconfigurazione più ampia della relazione del soggetto creativo con i suoi “oggetti” di lavoro. Se per Kant il formale si pone dalla parte del soggetto trascendentale, per noi il soggetto e il trascendentale sono entrati a far parte dei processi storici a priori di formazione. L’uso delle geometrie impiegate da tutti e quattro gli studi può essere inteso come il coinvolgimento di questo terreno in cui ci sono solo miscele di soggetti ed oggetti, in effetti, quando questi poli non possono più conservare alcuna sovranità (se mai abbiano potuto). Questi progetti non aderiscono ad alcun modello e offrono solo simulacri, copie prive di modello e che hanno completamente travolto i loro maestri platonici attraverso la formazione promiscua.
SCRITTO DA CHRISTOPHER HIGHT, Ottobre 2002